8 marzo 2016

Otto marzo festa di lotta e di liberazione

di Silvia Garambois da RadioArticolo1


- L’8 marzo è ritornato via via il giorno delle rivendicazioni e della rabbia. Un giorno contro la violenza. Un giorno per reclamare il ruolo paritario che alle donne spetta nel lavoro quanto nella guida del Paese
Una festa rinnegata. Una festa di rabbia. Una festa di lotta. Una festa di liberazione. Una festa di vittoria. Una festa di riflessione. Una festa di slanci. Ogni volta una festa diversa.
Le feste sono immutabilmente - noiosamente - uguali a sé stesse anno dopo anno: della mamma, del papà, ora anche dei nonni, il giorno dei fidanzati, e poi le feste religiose e quelle laiche. Ce n’è solo una che non sta nelle regole: la festa della donna. Non c’è un 8 marzo che assomigli a quelli che sono già stati…
Nel nostro Paese il primo vero, grande, 8 marzo è stato quello del ’46: la Liberazione, certo, ma anche per la prima volta il voto alle donne, 70 anni fa. Se non era festa quella! E serviva un fiore per quel “giorno delle donne” all’inizio di primavera: un fiore bello, semplice e facile da trovare, che non costasse nulla. Le donne dell’Udi - Teresa Noce, Rita Montagnana, Teresa Mattei - scelsero la mimosa. La mimosa come “logo” - diremmo oggi - per riconoscersi e condividere.
Si deve arrivare al 1977 perché l’Onu proclami la “Giornata internazionale della donna”, ma nel frattempo l’8 marzo era diventato troppo stretto per il dirompente movimento femminista, quella giornata aveva assunto il sapore acre della paternalistica concessione, una pizza con le amiche, le feste dedicate nei locali, la mimosa da comprare dal fioraio a caro prezzo. Una festa rinnegata: “8 marzo tutti i giorni”, così si gridava in piazza.
Ma le donne non buttano via niente. E l’8 marzo è ritornato via via il giorno delle rivendicazioni e della rabbia. Un giorno contro la violenza. Un giorno per reclamare il ruolo paritario che alle donne spetta nel lavoro quanto nella guida del Paese. Un giorno in più per andare in piazza e alzare la voce, anche se le donne hanno “conquistato” altre giornate per avere i riflettori puntati sulla condizione femminile: l’11 febbraio dell’esplosione di “Se non ora quando”, il 25 novembre riconosciuto come giornata internazionale contro la violenza, e anche il giorno di San Valentino che dal 2013 ha cambiato significato ed è diventato “One billion rising”, flash mob planetario a passo di danza.
Nel nostro Paese, in cui persino nella lingua che parliamo viene spesso negato l’uso del femminile alle donne che acquisiscono ruoli di rilievo (e crea quasi sconcerto che si dica ministra, ingegnera, avvocata, come la grammatica vuole), in cui persino le vie sono intestate soltanto agli uomini che hanno segnato la storia e le scienze (e c’è un diffuso movimento di donne per restituire una toponomastica femminile alle nostre città), in cui persino la tv non è capace di dare spazio alle donne di eccellenza (e dove gli esperti intervistati sono sempre uomini, ormai persino per le cose di cucina), l’8 marzo racconta oggi forse la fatica di riscoprire la scienza delle donne, dalle antiche (misconosciute) filosofe alle moderne madri (ignorate) delle più avanzate tecnologie.
Di riportare alla ribalta una storia delle donne che ha radici lontane e ampie fronde nella nostra realtà.
Un 8 marzo su cui pesano, soprattutto, le tante e troppe crisi, economiche e sociali, in una traballante Unione Europea e con le emigrazioni di massa dove, una volta ancora, sono le donne ad essere doppiamente vittime.

Silvia Garambois

08/03/2016

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